Sono i giorni cruciali che precedono lo scoppio della Prima guerra mondiale. A Venezia, all’hotel Excelsior, si danza un ultimo ballo. E la laguna non perde la sua magia neanche sotto l’incombere della tragedia. Siamo alla fine di luglio, nel 1914, a Venezia. Il 28 giugno a Sarajevo Francesco Ferdinando è stato assassinato, l’Austria ha consegnato l’ultimatum alla Serbia. Sono i giorni dei «sonnambuli», di imperi e nazioni, governanti e diplomatici, che consegnano inconsapevoli l’Europa al suo suicidio. Il commendatore Niccolò Spada vigila sui suoi ospiti all’Excelsior: il presagio che aleggia sull’Europa soffia anche sul Lido. L’Albergo leggendario è affollato: l’aristocrazia di tutta Europa scintilla come non mai, ma celebra le ultime ore della Belle époque. Fra gli ospiti c’è anche la marchesa Margarete von Hayek, «bella come sa essere solo una donna dal piglio pari alla grazia», che nasconde un segreto terribile, inconfessabile, e che brindando alla fine del mondo chiede una lettera di credito molto particolare a Spada. Il commendatore vacilla, tentato dall’amore per Margarete, che è «fuoco e rapina». Un sogno, sempre lo stesso, lo disorienta: un cacciatore ossessionato da una belva che si aggira per la foresta. Senza riuscire a incontrarla, ne sente il ruggito. Poco lontano, nel cuore della laguna, l’isola di San Servolo, sede del manicomio, conserva il segreto della nobile Margarete. Molesini ha il genio letterario, conosciuto con Non tutti i bastardi sono di Vienna, di saper mescolare il rombo della Storia con il sospiro e il languore delle storie private; di sapere intrecciare le vite di personaggi realmente esistiti con figure di romantica invenzione. E intorno la Laguna non perde la sua perlacea magia, l’incanto dei suoi tremolanti profili. Mentre una lingua bellissima riesce a confondere, nella prosa, il rumore del tuono di guerra con il sussurro della poesia.
Conferenza tenuta all’Università di Pavia il 24 marzo 1999 L’oggetto di una poesia consiste in una folla di sollecitazioni emotive rievocate, fra le quali rivestono la massima importanza i ricordi di incontri con esseri o eventi sacri. W.H. Auden Sono nato e cresciuto in un luogo d’acqua. L’acqua verde buia dei canali, che sa di cicoria bollita, di detersivo e di fogna. L’acqua della laguna aperta, che in estate prende il colore dell’erica delle barene e sa di pesce e di uccelli lenti come le darsene coi pescherecci. Le acque del Sile e del Brenta che per un poco si mantengono dolci prima di cedere alla salinità che il mare impone alla laguna. Acque differenti, le une ostili alle altre, che si mescolano e contendono lo spazio secondo tempi e modi che sfidano le leggi della fisica per sconfinare nel sortilegio. E sopra l’acqua la pietra. La pietra di una città fitta di case e di osterie, di comignoli e di gatti, di uccelli e di vento e di nebbia e di scorci di bellezza toccante e di raffiche maleolenti. C’è anche la pietra delle isole, ridotte dall’abbandono a tane di falchi e gabbiani, di serpi, di contrabbandieri e di ratti più lunghi di un avambraccio. Poi ci sono gli ubriachi. La mia infanzia è piena di ubriachi che vagano e tentano gli orli delle fondamenta e non cadono mai in acqua. Venezia sembra un film di Chaplin dove qualcuno con gli occhi bendati pattina sull’orlo del precipizio ma per quella comica fortuna che protegge gli innocenti il vuoto li rifiuta e finché non lo vedono non vi precipitano. Nessuno, a Venezia, si è mai annegato. Ecco la mia prima bugia. In verità è successo, è successo a un barbone che si chiamava Dante (sic!), che la sera si spogliava ubriaco e che dopo decenni di quest’abitudine, che popolazione e polizia ignoravano tra le risate, finì coi polmoni pieni d’acqua fetida in un canale. Ma Dante non fa storia, è sparito dalla memoria collettiva, anzi, credo sia più giusto dire che non ci è mai entrato. Perché Venezia è un luogo senza memoria. Sono nato e cresciuto in un luogo scolpito nella lentezza, fatto di spazi ridottissimi, calli strette, case che si toccano, turisti che intasano i sottoporteghi, barche che nei canali a stento sfilano le une accanto alle altre senza toccarsi. Scolpito nella lentezza, dicevo, perché fuori, sulle paludi ferme e immense che circondano la pietra abitata c’è un altrove senza echi percorso da uomini lenti che vogano alla valesana. C’era, dovrei dire, perché oggi vedo più barchini rombanti che altro. E questa è una catastrofe, perché Venezia è una città di suoni, non di rumori. Si sentono i gatti miagolare e si sentono i tacchi a spillo sui masegni. Il rumore dei motori è relegato ai canali, una maglia di vie ancora abbastanza silenziose e percorse dalla lentezza (le barche, anche quelle a motore, grazie a dio non hanno i freni). Nel principio, dunque, ho respirato un’aria fatta di opposti. Pietra versus acqua, pieno versus vuoto, gravità versus leggerezza, luce e luce riflessa dall’acqua versus buio e nebbia impenetrabili (il buio della notte sulla laguna, la nebbia nei mattini invernali bagnati di freddo). Un ricordo tra tutti. Il suono della Marangona, i rintocchi di mezzanotte. Li aspettavo. Verso le undici e mezzo chiudevo il libro e spegnevo la luce e nel buio (la sciavo gli scuri aperti per vedere il riflesso della luna o del lampione sotto casa sul soffitto della camera) nel buio dicevo aspettavo. L’attesa è una delle cose più belle della vita. Nessuno, credo, saprebbe dire con precisione perché, ma tutti possono capirmi. E quando la campana del campanile di San Marco riempiva il silenzio del buio senza infrangerlo, con una dolcezza rotonda e piena, sapevo che era l’ora di lasciarsi scivolare via, nel sonno. La Marangona, un nome. E i nomi sono tutto. Come le parole, alcuni pensano che non contino, che solo i fatti contano. Non contano, forse, ma sono tutto. Ogni bambino lo sa quando dà il nome al suo cane. Lo chiama e il cane viene. Non è poco. I nomi suscitano le cose, richiamano in vita morti, ricordi e situazioni, definiscono, discriminano, consolano, vivono tra noi secondo regole ignote ma non si può, non si deve mettere in discussione il loro potere mantico, che è temibile e incute lo stesso reverenziale terrore che si prova di fronte alle cose che non si comprendono e ricorrono, come le sofferenze di Giobbe. Ma ora voglio dirvi della Marangona. Il marangon è il carpentiere, il maestro d’ascia dedito alla riparazione degli scafi, per quasi mille anni lo strumento per procurarsi la sopravvivenza prima e la ricchezza poi, simbolo naturale dell’audacia, dell’intraprendenza dei mercanti-soldati che hanno fatto e retto e vissuto la millenaria Repubblica del Leone. Il marangon è un artigiano che con gesti secchi, lenti e precisi, scolpisce il mondo modellando il legno al fine di renderlo strumento di navigazione, dunque di viaggio, di esplorazione, di rischio: il guadagno e la perdita di Fleba il Fenicio. I marangoni si tuffavano in acqua con una cima legata alla vita che li assicurava all’albero o alla falca della nave che si accingevano a calafatare. Il loro tuffo suggerì una metafora: riproduceva quello del marangon, un uccello che si tuffa in picchiata per afferrare il pesce che nuota sotto la superficie dell’acqua. Da qui il loro nome. Oggi, nel dialetto veneziano, designa ancora, spogliato di ogni intensità e dignità metaforica, il falegname, ma credo che ben pochi ne conoscano l’origine, dunque la verità. Perché questo le parole, senza volerlo, senza che nessuno lo chieda e tantomeno lo pretenda, raccontano: la verità, cioè il passato, che è lo specchio del presente che è la vita. Una campana che riempie la notte col suo richiamo, e di giorno ritma l’antico alternarsi di lavoro e di pause: la Marangona, colei che come gli a-capo dei versi sancisce le pause, che dispensa il sonno e la veglia; da bambino mi chiedevo se gli uccelli pescatori sapessero per una qualche magia a cosa aveva dato origine il loro perfetto, semplice tuffo. La mia risposta infantile era sì, lo sapevano. Lo sapevano perché questa è ancora, malgrado la minaccia montante dei barchini superaccessoriati, una città di suoni e non di rumori. Lo sapevano perché la lingua suscita le cose indipendentemente dalla volontà di chi ne fa uso. Novalis, nel suo mirabile Monolog (1798, ma edito solo, a Berlino, nel 1845), ne ha ben descritto la natura segreta e spietata, il beffardo potere mantico. Bisogna stare attenti quando si usano le parole. Perché sono potenti, temibili. Sono loro le più forti, e noi dobbiamo imparare a farci usare e attraversare dalla loro forza più che pretendere di asservirle. La poesia è questo. Il poeta non è tanto un signore della lingua quanto colui che dalla lingua sa farsi signoreggiare. Ma il poeta è anche colui che ha saputo sottoporsi alla tirannica disciplina di le mot juste. Cito un brano tratto da un saggio del 1913 di Ezra Pound, il poeta americano che da bambino vedevo passeggiare, alto e irraggiungibile, alle Zattere. «Se un artista falsifica la sua relazione sulla natura dell’uomo, sulla propria natura, sulla natura del suo ideale di perfezione, sulla natura del suo ideale di questa e quell’altra cosa, del suo ideale di dio se dio esiste, o della forza vitale, o della natura del bene e del male se il bene e il male esistono, o sulla forza con la quale egli crede o non crede a una cosa o a un’altra, o del grado in cui egli soffre oppure è fatto lieto; se un artista falsifica i suoi referti su questi punti o qualsiasi altro punto, per potere uniformarsi al gusto del suo tempo, alle aspettative di un sovrano, alle convenienze di pregiudizi etici, allora quell’artista mente. Che egli menta per deliberata intenzione di mentire, o per trascuratezza, per pigrizia, per codardia, o per qualsiasi altro genere di negligenza, egli nondimeno mente e dovrebbe venire punito o disprezzato in proporzione alla gravità della sua offesa. […] Non c’è forse niente di peggio per un uomo che sapere di essere un uomo indegno, e sapere che vi è qualcun altro, fosse anche una sola persona, che lo sa.» L’etica è l’ombra dell’estetica. Il senso di giustizia deriva naturalmente dalla bellezza che ci circonda, cioè quella di cui sappiamo circondarci, quella che la nostra mente o meglio ancora la nostra anima sa e riesce a comprendere e trattenere, sviluppare e rispecchiare. La bellezza è dovunque, come ogni altra cosa, come la stupidità, come il sole e la pioggia, o la fiamma di uno sguardo che ci sorprende nel metrò quando meno ce l’aspettiamo. “Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know”. Se penso alla città che ho lasciato ieri pomeriggio o alla Certosa di Pavia, e le confronto col paesaggio con cui ho convissuto per tre ore di autostrada, o alla periferia di Milano, mi chiedo cosa è successo al nostro senso estetico, perché abbiamo esiliato la bellezza, perché non sappiamo accostare una foglia d’acanto, con tutto quello che la foglia d’acanto rappresenta nella lunga e tormentata storia dell’Occidente, col profilo di una statua, con la quercia che muta voce e colore col mutare delle stagioni, perché la plastica e la latta e la fretta e il rumore hanno allontanato il gusto della parola precisa, che incide nel nostro sentire e lo muta fino a trasformarci, consegnandoci alla bava indeterminata dei notiziari e dei dibattiti radio-televisivi. Cosa è successo alla specie. Quanti sanno distinguere un endecasillabo nel fluire scombinato della chiacchiera, eppure, senza avvedercene, ne usiamo anche comprando un chilo di mele o una manciata di chiodi. Cosa è successo. E’ solo la ricorrente nostalgia del “bel tempo andato” che mi muove a dire queste cose, queste cose che, credo, tutti sentiamo? Dove sono finiti gli artigiani, gli innamorati della materia, i devoti dello strumento, sia l’ascia del carpentiere o lo stilo della scriba. Come è caduta la polvere, quando siamo stati separati dal nostro spavaldo desiderio di dire il vero a ogni costo, contro tutto e tutti, dove abbiamo perduto il coraggio di aderire, di più, di vivere la verità cantandone la durezza e la semplicità. Un esempio per tutti. Quale narratore oggi, e penso soprattutto, data l’occasione, alla letteratura dedicata ai ragazzi o magari addirittura ai bambini, potrebbe far giocare a uno storpio il ruolo del Cattivo? Eppure un’antica saggezza suggerisce – e le tragedie di Shakespeare, i libri di Dickens, l’Isola del tesoro e il mondo intero lo raccontano – che un uomo severamente menomato dalla natura o dalla propria storia può forse più facilmente di altri portare rancore verso il prossimo, verso le cose perfino, di altri meno provati dalla sorte. Senza contare, poi, che la grammatica dell’immaginario infantile e collettivo da sempre tende ad abbinare, per ragioni, non me lo nascondo, fin troppo ovvie e dunque stupide, bruttezza a malvagità, menomazione fisica o psichica a pericolo. Pensate all’ansimare innaturale che annuncia la presenza di Dark Fener, l’eroe nero di Guerre Stellari. E pensate alla lingua di cui Orwell paventava la venuta, Newspeak. Quella che sostituisce meccanicamente brutto con non bello. Non è poi così distante da certe minacciose abitudini del nostro tempo. Oggi chiamiamo lo storpio portatore di handicap, il cieco non vedente, lo spazzino operatore ecologico, le carceri casa di rieducazione, la cameriera collaboratrice domestica, il pellerossa nativo americano credendoci persone tanto sensibili, preoccupate di offendere il prossimo, ma quanti sanno che i pellerossa, tra loro, si chiamano il Popolo degli Uomini. Immaginate un romanzo in cui le parole storpio, cieco, spazzino, carceri, cameriera e pellerossa vengano sostituite con gli eufemismi burocratici oggi in voga. Scrivere, dunque, ha a che fare col bisogno, anzi la necessità, di dire il vero, di aderire al vero. La verità mi sta a cuore, anche se spesso non ne sono all’altezza. Ma mi sta a cuore. E scrivere significa corteggiarla, e farsene servitore. Lasciarsi compenetrare dalla sua forza, dalla sua semplicità, dalla sua irriverenza. Per questo scrivere, come tutta l’arte, è cosa lieta. Per me ha sempre avuto a che fare con l’acqua, le differenti acque che ho prima nominato, la materia di cui siamo fatti. Perché noi siamo in buona misura H2O, anche se questo non sembra turbare la nostra coscienza. L’acqua e la luce che riflette, il suono del suo sciacquio contro la fondamenta o le falche della barca. Il rumore della pioggia, l’odore della rugiada e della brina sui tetti, e come ho scritto in Polvere innamorata, “l’odore elettrico dell’aria dopo i temporali estivi”, che per me era e resta “l’odore della felicità”. E voglio concludere questa prima parte della relazione con una poesia di Brodskij (altro veneziano di adozione, come Pound) che dicendo degli spazi vuoti delle paludi baltiche (luogo natale del poeta) parla senza avvedersene della nostra laguna: Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove onde grigie di zinco vengono a due a due; di qui tutte le rime, di qui la voce pallida che fra queste si arriccia, come il capello umido; se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio, ma battiti di tele, di persiane, di mani, bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani. In questi piatti paesi quello che difende dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo: l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco. Da tutto questo e da molto altro che per ragioni di tempo debbo tralasciare viene la mia fedeltà verso la parola precisa, che segna e incide, e verso le immagini e i silenzi di quei lenti luoghi fatti d’acqua, di ombre, di pietra e di spigoli smussati dall’incuria e dal vento umido; sì, da tutto questo viene il fiume di ossessioni che costituisce l’oggetto dei miei racconti: la leggerezza, il volo (le fiabe di Aznif e del Matto e l’Ippopota), la chiacchiera che contende al vuoto il dominio dello spazio e del tempo (il quarto elemento, dopo l’acqua, la luce e la pietra, di cui è fatta Venezia) e il corpo che si beffa dell’anima che racchiude (Quando ai veneziani crebbe la coda e, in minor misura, Aznif e la strega maldestra, dove a tutti crescono dei piedoni prima della gara di ballo del finale, o in All’ombra del lungo camino, in cui le malvagie SS si ricoprono di peli). Da questo primo elenco ho tralasciato tre titoli: Tutto il tempo del mondo, Polvere innamorata e L’avventura di Ulisse. I primi due sono di ambientazione veneziana in modo forse più diretto di Quando ai veneziani crebbe la coda, mentre l’ultimo, che si trova in libreria da un paio di settimane, è un retelling dell’Odissea. Tutto il tempo del mondo e Polvere innamorata hanno in comune, al di là dell’ambientazione lagunare prima e più ancora che “veneziana”, il tema dell’amicizia tra un ragazzino e un uomo adulto (puer e senex), di classe sociale “inferiore” a quella del ragazzo, ma dotato di una cultura profonda, di taglio non scientifico o letterario, ma sapienziale (questo elemento è presente anche in All’ombra del lungo camino dove il protagonista, un analfabeta sapiente, stringe amicizia con un ragazzo ebreo). Ma la costante più autentica e riconoscibile, il marchio di fabbrica, la cifra stilistica che dà unità all’opera vibra altrove e solo marginalmente influenza la natura della materia narrata. Ha a che fare con le letture che mi hanno nutrito, che considero fisicamente parte dell’ambiente dove sono nato e cresciuto. Innanzitutto una precisazione: le fiabe “classiche” le ho ascoltate fin da piccolo in inglese e in inglese, una volta alla settimana, dovevo riferirle a mio padre che il sabato pomeriggio mi dedicava un’ora per verificare i miei progressi nella lingua che riteneva strumento essenziale per considerarsi uomini di questo tempo. I ritmi aspri e consonantici del pensiero anglosassone sono così entrati a far parte del mio sentire da quando avevo sette, otto anni. E la forza delle metafore che hanno nel verbo il loro centro ha cominciato allora a impadronirsi di me. Rem tene verba sequentur. Questo il motto attraverso cui mi sono formato. In inglese suona Make it work, fallo funzionare, l’insieme di parole che adoperi per convogliare emozione e senso deve innanzitutto “funzionare”: come un motore consente all’auto di trasportarti così le parole debbono essere efficaci, muovere l’emozione e inquietare la percezione della realtà costringendo il lettore-ascoltatore a riconsiderarla sia pure in piccola parte. Formarsi nello studio di una lingua straniera costringe a considerare il nesso suono-senso in modo curioso. Da estraneo, appunto. L’inglese, come ha intuito Savinio, è la lingua della rara stirpe degli uccelli, un cinguettio bisbetico e sfrontato; mentre l’italiano è la lingua dei putti appesi agli angoli degli stucchi delle case settecentesche, oppure è l’artiglio del toscano di Dante e di Machiavelli. Due lingue che comunque amo senza riserva, l’una conosciuta ascoltandone le fiabe l’altra nella vita di tutti i giorni. Ma ce n’è una terza, il dialetto veneziano. La lingua che usavo per giocare a calcio o a stampine nel cortile dell’Armando Diaz, la mia scuola elementare. Forse vi ho appena detto una bugia. Non tanto la lingua di tutti i giorni e l’ascolto attento delle fiabe mi ha formato, quanto la lettura della poesia, nel senso più proprio di “pagine scritte in versi”. E’ sempre stata la poesia, infatti, a costringermi alla lettura e alla riflessione instancabile. La poesia italiana e quella inglese. E prima ancora un libro che considero il libro dei libri: l’Odissea. Anche l’Iliade mi affascinava, e credo ancora che i passi più esaltanti si trovino lì, però come libro la storia di Ulisse è imbattibile. Anche perché non si tratta di un poema arcaico, non è l’episodio-guerra che attraversa la vita dei personaggi ma il protagonista che attraversa gli episodi che la sorte gli impone. Un romanzo. E poi Ulisse è ad un tempo puer e senex, e a che fare con l’acqua, con l’àpeiron, il luogo senza confini. Tutte le specie di donne cercano di trattenerlo, ma nessuna lo ferma, né Nausicaa né Circe, né Calipso né le Sirene, perché l’isola, che è l’infanzia ed è il regno (con Penelope) è al centro del gorgo della sua identità. Nella tarda adolescenza compresi che la migliore poesia della mia patria era finita nel 1321. Almeno per quanto mi riguardava. Il movimento petrarchista e l’Umanesimo mi annoiavano, e dovevo arrivare ai Sonetti del Foscolo, alle Grazie e ai Sepolcri per riaccendermi. Mentre la poesia inglese, a partire da Shakespeare mi affascinava e continua a farlo. Soprattutto quella americana, che da Whitman a Cummings, dalla Dickinson alla Bishop, da Pound a Stevens, da Frost a Lowell, costituisce per me il centro del vortice linguistico-emotivo che tiene insieme l’anima. Da qui il mio rifiuto per l’indugio (a distaste for lingering) espressivo, per lo stile decorato e maniacalmente compiaciuto di buona parte della tradizione italiana moderna che sembra ignorare, o meglio snobbare, le necessità di immediatezza filmica, di immagini rapide e nitide (l’una cosa richiama l’altra) e oscilla tra l’ornato letterario e la sciatteria commerciale. La poesia – per natura – è una grande disturbatrice di significati, propone immagini aliene al comune sentire perché più vere, intense, rapide. Verità, intensità, rapidità. Sono proprio queste le caratteristiche “imaginifiche” del sentire poetico del secolo che sta per concludersi, del Secolo Americano. E queste caratteristiche credo almeno in parte di aver trasferito nelle mie fiabe. Il nesso tra poesia e fiaba – o comunque narrazione che indica il bambino-ragazzo come lettore prediletto anche se non esclusivo – è vivo e particolarmente forte proprio nella cultura anglosassone. Molti poeti di spicco si sono distinti come narratori di fiabe e racconti per ragazzi: Hilaire Belloc, Robert Louis Stevenson, Rudyard Kipling, Walter De La Mare, Carl Sandburg, John Masefield, e.e.cummings, Randall Jarrell, Sylvia Plath, Ted Hughes, e l’elenco potrebbe continuare per una pagina intera. Ma tra tutti conviene soffermarsi sul nome di Sandburg, che racconta e anticipa lo spirito di cartoonia nelle memorabili Rootabaga Stories. Ed è anche una cartoonia sonora quella a cui fa riferimento Sandburg, un’icona musicale del mondo eccitato e impenetrabile del nostro tempo, fondato sulla velocità di produzione e percezione dei guizzi immaginativi, delle svolte (versi) di senso, dei salti di scena (cinema), e da un susseguirsi di intuizioni affettive che fino ai cartoni animati e ai peanuts erano esclusivo appannaggio del poeta puro. Credo che la chiave di questa simpatia tra poesia e fiaba risieda nella dipendenza di entrambe dal ritmo e dalla follia che è rievocazione più o meno cosciente di incontri sacri – come ha scritto Auden -, incontri con persone, luoghi, situazioni che si reimpadroniscono di noi. La poesia – ha scritto qualcuno – consente all’uomo di prescindere dalle catene della razionalità e di venirne riscattato. Forse è un concetto più bello che vero, ma del vero in questo comunque c’è. Nella fiaba e nella poesia tutto può accadere perché il ritmo incalza e beffeggia il senso meglio della logica, perché il ritmo è in noi, impiantato nel corpo, nel battere del cuore, nell’alternarsi di inspirazione a espirazione, nel camminare. Perché noi siamo il ritmo, e i “versi”, le svolte del pensiero e del sentire, sono lì per ferire la nostra identità, la nostra quiete raggiunta nel metterci in relazione alla res, al mondo che ci circonda, e metterne così in discussione perfino la veridicità. “La bellezza non è il capriccio di un semidio / ma il colpo d’occhio rapace di un falegname” (Mandel’stam). L’immaginazione organizza il mondo in scene, esclamazioni, aneddoti e sentimenti. La materia di cui siamo fatti. E la fiaba, il più sintetico, poetico, infantile e sofisticato modo di raccontare, cerca di rappresentare quel mondo suscitando immagini che ne suggeriscano (senza mai davvero dirne o, peggio, spiegarne) l’identità. Una fiaba, come una poesia, non riuscirà mai a raccontare la perfetta armonia racchiusa nel nuoto di un pescecane, ma come la sua pinna ne suggerirà la vita (che resta imperscrutabile e misteriosa) all’immaginazione del lettore. La poesia suggerisce, non dice. Quando vediamo la pinna nera sporgere dall’acqua siamo colti da un fremito di terrore, perché la mente sente lo squalo, e lo sente di più proprio perché gli occhi non lo vedono. Credo che una cosa del genere accada agli gnù quando annusano un leone. Un vago olezzo basta a mettere il branco al galoppo. Mi piace concludere citandovi un paio di poesie che chiudono il mio ultimo lavoro dedicato ai bambini, Tarme d’estate. Sono due poesie con lo stesso soggetto, il gatto. La prima s’intitola Itaca, il nome di una gatta bianca che avevo qualche anno fa, la seconda invece si chiama Il gatto e anche se nel libretto non se ne fa menzione è dedicata alla gatta che ora vive con me, Teppa. Credo che ascoltandole, percependo quello che il loro ritmo suggerisce saprete qualcosa di questi due animali e sentirete, spero, in quale misura e in che senso partecipano al mistero della vita e al grande spettacolo dell’azione che tutto e tutti affraterna e travolge. E forse vi sentire una eco sia pure appena percettibile di quanto fin qui detto: una eco di Venezia, dell’Odissea, di cartoonia e dell’incedere di questo sacro, buffo animale in cui gli egizi riconoscevano il dio dell’arte.